Racconti GitErranti: Lo Scriba

Cari Giterranti 

Fra dieci giorni sarà Pasqua per la religione cattolica e dal 15 aprile inizia Pesach, la Pasqua ebraica, e io ero tentata di farvi un articolo che parlasse dell’origine pagana della Pasqua e delle differenze tra la Pasqua ebraica e quella cristiana ma per fortuna vostra ho deciso invece di postarvi questo racconto, nato qualche anno fa dopo aver letto per l’ennesima volta l’assurda storia delle dieci piaghe d’Egitto.
Ovviamente, come il mio solito, mi sono messa dalla parte degli oppressi, che in questo caso è sia

il popolo egiziano che il popolo ebraico.
Rileggendo il racconto per correggere eventuali refusi, mi sono accorta che ieri come oggi, nelle dispute politiche chi ci rimette è sempre e solo il popolo e che alla fine la legge biblica “occhio per occhio, dente per dente” è la regola più assurda, controproducente e guerrafondaia che sia mai esistita.
Detto questo, vi auguro buona lettura e mi raccomando, ricordatevi di GitErrare ovunque la vita vi porti godendovi appieno ogni secondo.

Lo Scriba.

«Nonno raccontaci ancora la storia dello scriba, ti prego!»

«E va bene, ve la racconto. Ma non voglio sentire nessuno che piagnucola perché ha paura intesi?»

«Non abbiamo più paura nonno!» esclamarono in coro i cinque bambini.

«E dopo, tutti a letto senza fare storie. Promesso?»

«Promesso nonno» dissero i bambini stringendosi fra loro.



***

C’era una volta uno scriba di nome Sef, che era al servizio del faraone Merneptah.

Un giorno uscì dal palazzo reale molto presto e con passo veloce si avviò verso casa, passando per il mercato del paese quasi deserto.

La recente moria di bestiame e la distruzione dei raccolti aveva messo in ginocchio gran parte della popolazione; molti mendicavano qualcosa da mangiare, alcuni erano ricoperti di piaghe.


Con la testa china e perso nei suoi pensieri giunse a casa proprio mentre la moglie era intenta ad attingere l’acqua dal pozzo.

Quando lo vide arrivare gli sorrise, mostrandogli un secchio pieno di acqua limpida.

«Marito mio guarda, non c’è più sangue. Forse le maledizioni sono finite!»

L’uomo la guardò tristemente, ma non rispose.

La donna vedendolo così incupito si preoccupò molto, lasciò  il secchio a terra ed entrò con lui in casa.

«Sef cos’è che ti rende triste e preoccupato?» chiese la donna.

L’uomo sospirò: «oggi è tornato a palazzo Moseh con suo fratello Aronne».

«Oh mia Bastet proteggici. Con la loro oscura magia non hanno fatto altro che mandare

maledizioni al nostro popolo. Oh Sef ti prego, parla con il Faraone. Perché non rende la libertà a questa popolazione di maghi e stregoni? portano solo sventure».

L’uomo la abbracciò: «mia dolce luce di Hator un semplice scriba non può dare consigli al Faraone, ma appena Merneptah è uscito dalla stanza mi sono precipitato dietro ai due uomini e li ho pregati di ritirare la maledizione. Mi hanno risposto che non possono, questo è il volere del loro Dio che è grande e potente».

«Se il loro Dio è così potente perché non li aiuta a fuggire invece di mandare sventure a tutto l’Egitto?» Disse la donna con voce rabbiosa.

«A questa domanda non so risponderti Nailah, mi sento così inutile». Sef si sedette sui cuscini e iniziò a singhiozzare.

Nailah rimase stupita dalla reazione del marito, non lo aveva mai visto piangere nemmeno durante il funerale dei genitori.
Si avvicinò a lui sentendosi invadere dall’ansia, gli sedette accanto e gli posò una mano sulla gamba.

«Amore, quale sventura ci dobbiamo aspettare? Ti prego dimmela. Vedrai che possiamo provare a contenere i danni come abbiamo fatto con le mosche e le zanzare».

Sef prese la mano della moglie fra le sue e la baciò: «questa volta amore mio la maledizione è terribile. A mezzanotte moriranno i primogeniti in tutto l’Egitto, uomini e animali, nessuno escluso».

La donna sgranò gli occhi e impallidì, iniziò a tremare visibilmente poi strinse forte le mani del marito, e con voce strozzata balbettò: «no, no, nostro figlio no!» e svenne.

Sef l’afferrò per le braccia e la scosse finché non riprese conoscenza.

«Nailah tesoro, in questo momento ho bisogno di te, ti prego fatti forza e cerchiamo di trovare una soluzione».
«Oh Sef fuggiamo, partiamo subito. Non possiamo permettere che il nostro unico figlio muoia. Andiamo via ti prego». Disse la donna con un fil di voce.

«Anche se partissimo ora, ci vorrebbero tre giorni per raggiungere i confini dell’Egitto. Non abbiamo tempo di fuggire. Dobbiamo trovare un'altra soluzione, calmiamoci e cerchiamo di riflettere». Si abbracciarono.

Era un giorno assolato di inizio estate, e sotto un albero di sicomoro giocava il piccolo Jahi ignaro del suo prossimo destino.

Vide il padre uscire di casa e gli corse incontro: «padre, che bello che sei tornato» disse buttandogli le braccia al collo.
Sef l’abbracciò: «Jahi dobbiamo andare».

«Andare dove padre?»

«lo vedrai. Aiutami a preparare il cammello».

Jahi era felice perché era raro che suo padre lo portasse con lui, sellò il cammello e quando fu pronto indossò un pajar per proteggersi dal sole.

Si avviarono verso i margini della città.

La strada era polverosa, l’aria iniziava ad essere calda, Jhai non era abituato ad andare in

giro in groppa ad un cammello e quella posizione lo stava stancando.

Finalmente dopo più di un ora di viaggio comparve davanti ai loro occhi un grande accampamento, scesero dalla groppa dell’animale e dopo averlo legato ad un cespuglio si avviarono a piedi.

Centinaia di uomini e donne lavoravano, parlavano, ridevano, i bambini giocavano felici mentre le loro madri macinavano il grano per fare il pane, conciavano pelli o distendevano strisce di carne ad essiccare al sole. 

Alcuni uomini erano intenti ad intrecciare ceste o a tagliare legna, altri invece a cuocere vasi di terracotta in forni di fango.


«Sono uno scriba reale e vorrei conferire con il vostro capo» disse Sef  rivolgendosi 
ad un uomo che stava intrecciando una cesta mostrando l’anello col sigillo dei funzionari reali.

L’uomo lo guardò intensamente poi distese il braccio e indicò una grande tenda bianca al centro dell’accampamento e senza dire una parola tornò al suo lavoro.

Sef e Jahi ripresero a camminare tra l’odore del pane appena cotto e la polvere alzata dai giochi dei bambini.

Giunti davanti alla tenda, Sef si avvicinò agli uomini che stavano di guardia all’entrata mostrando anche a loro il sigillo dei funzionari reali e chiedendo udienza ufficiale presso il loro capo.
Uno degli uomini entrò nella tenda e dopo qualche minuto uscì autorizzando Sef e suo figlio ad entrare.

Il pavimento della tenda era coperto di tappeti e cuscini e al centro, seduto sopra uno scranno

di legno, c’era un uomo robusto  vestito con una tunica bianca e uno sguardo accigliato.

Sef e Jahi abbassarono il capo in segno di saluto.

«Ancora tu?- Disse l’uomo toccandosi la barba - ti ho già detto questa mattina che non è in mio potere ritirare la maledizione. Vattene».

«Signore mi ascolti la prego, questo è Jahi il mio unico figlio» implorò Sef 

«Lui non ha fatto nulla contro il vostro popolo, nessuno della nostra famiglia è un vostro nemico. Eppure abbiamo subìto, inermi, tutte le vostre maledizioni. Perché ve la prendete con tutto l’Egitto quando l’unico che ha colpa della vostra condizione è il faraone? Aiutateci! Pregate il vostro Dio di risparmiare degli innocenti».


L’uomo si alzò sbattendo un pugno sul bracciolo di legno: «durante lo sterminio dei nostri neonati decretato dal vostro Faraone, nessuno di voi ci ha aiutato a fermare quello scempio. Che colpa avevano quei piccoli se non quella di essere nati ebrei? Erano proprio le vostre levatrici che li uccidevano appena nati, senza pietà. Quante madri hanno pianto i loro figli! Io stesso sono salvo per miracolo e voi avete forse implorato i vostri Dei di aiutarci? No! Anzi! Usate le nostre donne come serve, i nostri uomini lavorano fango e paglia per costruire le vostre case, e nessuno di voi si è mai chiesto quale fosse la nostra condizione. Occhio per occhio, dente per dente. Questa è una delle leggi dettate dall’ unico Dio, e questo è il suo volere. A mezzanotte moriranno tutti i primogeniti d’Egitto, a meno che il tuo Faraone non acconsenta a liberarci. E ora va, non sono io che posso aiutarti».

Sef cercò di replicare ma fu preso sotto braccio e fu scortato, insieme al figlio, fino ai margini dell’accampamento.
Jahi era sconvolto da ciò che aveva sentito e tremava di paura pensando che mezzanotte di

quello stesso giorno sarebbe morto.
Sef aveva le mascelle serrate e gli occhi umidi e prima di salire sul cammello abbracciò suo figlio: «non ti preoccupare tesoro, troverò un modo per far annullare la maledizione, te lo prometto».
«Cosa facciamo ora, padre?» chiese Jahi un po' rincuorato.
«Andare dal Faraone è inutile, è rigido sulla sua posizione, quindi torneremo a casa. Tua madre è andata al tempio a parlare con il gran sacerdote, il Dio Anubi ci aiuterà vedrai».

Arrivarono un ora dopo il tramonto ed entrando in casa furono avvolti da un forte odore di incenso.


Trovarono Nailah nella sala principale intenta ad ornare di fiori e candele un grande altare con l’effige di Anubi.

«Marito mio, dimmi che porti buone notizie» disse abbracciando il figlio.

«Purtroppo nessuna. La maledizione non sarà tolta a meno che il Faraone non accetti di liberare gli ebrei, cosa del tutto improbabile tra l’altro. E tu moglie mia, sei riuscita ad avere indicazioni?»

La donna indicò l’altare.

«Anubi ha parlato tramite il gran Sacerdote,  dice che la maledizione è molto potente e non si

può sconfiggere. Non si può vincere contro l’angelo della morte, ma possiamo provare a ingannarlo».

«E come potremmo ingannarlo?» chiese Sef pensieroso.

Nailah sollevò un panno, scoprendo un pupazzo di paglia vestito con gli abiti di Jahi.

«Secondo il sacerdote, se noi inseriamo in questo pupazzo un cuore immerso nel sangue di nostro figlio, l’angelo della morte dovrebbe essere ingannato. Abbiamo eseguito il rito di presentazione agli Dei come se fosse il fratello gemello di Jahi, lo abbiamo chiamato Imap e abbiamo dichiarato che è nato qualche minuto prima di nostro figlio. Se tu lo alzi sopra la testa e fai il rito di riconoscimento sarà lui il primogenito».

Sef e Jahi si guardarono increduli.

«Oh Nailah credi che funzionerà?» chiese Sef con voce ansiosa.

«Marito mio lo spero, non ci resta che fare ciò che ha detto il sacerdote e aspettare. Al mercato

ho comprato un cuore di agnello, ora dobbiamo intingerlo nel sangue di Jahi. Scusa figlio mio ma dobbiamo inciderti una mano per prendere il tuo sangue».

Jahi si sottopose con coraggio al taglio del palmo della mano sinistra, facendo poi colare il sangue nella ciotola che conteneva il cuore del piccolo animale che fu poi posizionato dentro il fantoccio di paglia.

Mancava poco a mezzanotte e i tre abbracciati, continuavano a gettare grani di incenso sui carboni ardenti, ad accendere candele sull’altare e a cantare un’ antica litania al Dio Anubi invocando la sua protezione.

Si accorsero che era giunta mezzanotte dalle grida strazianti e dai pianti che venivano dal vicinato, non c’era una casa dove non si piangesse un morto.

I tre si strinsero ancora di più, pregando e tremando.

Nailah aveva gli occhi chiusi, se l’inganno non avesse funzionato non voleva vedere suo figlio morire.

Aspettò un tempo che a lei parve infinito, poi riaprì gli occhi e vide con gioia che Jahi era ancora vivo.

«Sef, ha funzionato!» sussurrò con un voce rotta dall’emozione.

Jahi non poteva credere di essere ancora vivo e si inginocchiò insieme a suo padre davanti l’altare di Anubi.

«Oh grande Anubi, ti ringraziamo per l’aiuto ricevuto, saremo sempre i tuoi fedeli servitori, giuriamo nel nome di Amon Ra».

Nailah si avvicinò all’altare, la videro buttare sul braciere una manciata di grani d’incenso, poi con gesto repentino e con un urlo disumano prese il pugnale dall’altare e si scagliò verso Jahi, trafiggendogli una guancia.

Sef reagì all’istante, bloccandole le braccia e allontanandola dal figlio.

«Nailah, che ti succede? Nailah torna in te!» gridava Sef, mentre Jahi sotto shock cercava di fermare il sangue che gli usciva copioso dal taglio.

Nailah sembrava colta da un attacco epilettico. Pur stando in piedi il suo corpo era scosso da violenti tremiti, le sue mascelle erano serrate, mentre mostrava i denti come un cane rabbioso.

«Non si può ingannare l’angelo di Dio il vendicatore» tuonò Nailah con voce cavernosa.

Brandendo il coltello si avventò nuovamente su Jahi che non riusciva a muoversi dal terrore.

Sef riuscì a bloccarla, ma l’entità che si era impossessata di Nailah era potente, non sapeva per quanto tempo avrebbe potuto contrastarla.

«Sei tu l‘angelo della morte?-  chiese Sef all’entità, e senza aspettare risposta aggiunse - chiedi al Dio degli Ebrei di prendere la mia anima al posto dell’anima di mio figlio. Sono pronto a sacrificarmi».

L’entità scoppiò in una gutturale risata.

«Uomo, che cosa ti fa pensare che lo scambio sia equo? Hai provato ad ingannarmi. Meriti una punizione. E non c’è punizione più grande che quella di sopravvivere ai propri figli».

Così dicendo Nailah, comandata dall’angelo della morte, spinse Sef lontano e con un balzo si avventò sul figlio.

Jahi non si mosse, il terrore lo aveva paralizzato. Aspettava la morte con gli occhi sgranati e il cuore in tumulto.

Vide la scena a rallentatore: sua Madre che si buttava in avanti spingendo Sef di lato, la mano con il coltello avvicinarsi sempre di più, gli occhi iniettati di sangue e selvaggi, i denti serrati, la bocca ghignante, e una schiuma densa e biancastra che le usciva dagli angoli della bocca.

Poi, mentre pensava che fosse tutto perduto, vide suo padre rialzarsi e con un balzo mettersi fra lui e sua madre.

Il coltello affondò dritto nel petto di Sef che cadde in terra e in un ultimo rantolo disse: «accetta il mio sacrificio, Dio degli ebrei» e morì.

In quel momento Nailah svenne e Jahi capì che grazie a suo padre aveva salva la vita.

Quella notte furono in migliaia a morire, tra cui anche il figlio del Faraone, che preso dall’angoscia concesse agli Ebrei la libertà.

Loro in tutta fretta lasciarono l’Egitto per vagare quarant’ anni nel deserto.

Ma questa è un'altra storia.

***

«Ora bambini miei tutti a letto!»

«Nooo nonno, svelaci se Nailah si riprese. Raccontaci di Jahi» Cantilenarono i bimbi in coro.

«Un'altra sera, ora tutti a letto altrimenti chiederò al fantasma di Sef di venirvi a fare visita».

I bambini si alzarono e si diressero ognuno alle proprie stuoie vicino al fuoco.

Lo scriba
By Enrica Cantarini

L’uomo aspettò ancora un poco che si addormentassero poi uscì per prendere un po' d’aria.

Raccontare quella storia lo sfiniva.

Quella notte la luna era alta nel cielo, guardandola si toccò la cicatrice sulla guancia.

«Buona notte padre» disse commosso.




Informazioni

Il racconto è inserito nel libro “ Un libro ti cambia la vita e altri racconti” lo puoi trovare su Amazon sia in cartaceo che in formato elettronico.
Disegno a cura di Enrica Cantarini  Instagram : @_3rrecaa_

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